Il vagone dei ferrovieri

Ho una brutta stampa appesa in casa

che ai miei ospiti non piace.

È un vagoncino rosso della Union Pacific,

qui in America lo chiamano Caboose,

ultimo di dieci carri merci

che seguono la curva dei binari

su una prateria di cespugli di saggina.

Oltre il quadro

il treno va, continua a andare,

si perde nella spugna del muro

verso un sole tramontato ad occidente del pittore

e che manda luci postume, ubriache.

Paul F. Detlefsen, dice la placchetta,

The Red Caboose.

I ferrovieri ci andavano a mangiare

scodelle di fagioli, a fumare e bere whisky.

La locomotiva è piccola in distanza,

non riesco a distinguere il tipo.

Avrà un nome eroico e familiare

come il General di Keaton, e comunque

manda un fumo strepitoso e dritto

che si mischia col colore viola polvere

delle nuvole avanzanti le colline.

Sento gli uomini passarsi la voce

in fila sulla cima dei vagoni.

Li vedo tirarsi le bretelle, scacciar mosche,

scherzare coi neri cappelli a visiera.

 

"Nessuno può distruggere le stazioni."

È una cosa che ho scritto una volta e non sapevo perché.

Mi ipnotizzava come qualcosa di morto e sicuro,

mi sembrava vera

come un congresso di metereologi

di cui solo metà ha portato l'ombrello,

vera come il cartello all'ingresso

di qualche città di guerra, Dresda, Coventry,

dopo che gli aerei si furono sgravati.

 

Una sera presi un treno a Siracusa,

facevo il folksinger allora.

Finito un altro festival,

gruppi rock, una compagnia di teatro Kathakhali.

Gli indiani si erano mangiati tutto il riso,

i musicisti rock si erano portati via tutti i soldi.

Ricavai le spese e il teatro greco.

Nell'Orecchio di Dionisio un disc-jockey mi assordò

con le sue graduatorie personali

e con il music business che fa schifo.

Verso Catania, corridoio dopo corridoio,

fantasticavo di essere in un plastico,

forti motrici sulle montagne coniche,

merci che scendevano dondolanti allo smistamento.

Quando ancora mi attaccavo alle vetrine

i treni più belli, più cari erano i Märklin.

I Rivarossi traboccavano dagli scaffali,

pochi avevano i Fleischmann,

e io ero orgoglioso di possederne uno.

Non avevo scambi. Avere scambi era da ricchi,

spenderci soldi era scelta morale.

Eracle al bivio, la via in discesa della virtù,

la lenta salita del conforto.

 

Entrai nel vagone postale.

Mio padre contava sacchi di lettere,

pacchi tesi contro le corde come seni dentro vestiti.

Non riuscivo a andare avanti,

la mia cuccetta era due carrozze in testa

ma non mi muovevo, mi ero fissato

che il treno corresse più di me.

Non posso dormire, papà, raccontami ancora

la storia dell'aereo americano

che mitragliò tutto intorno alla stazione, al tuo paese,

e non la prese mai.

È ancora là, l'ho vista,

sempre uguale dalla fine della guerra.

È adesso che sembra bombardata, vecchia, inutile,

ma nessuno l'ha distrutta.

Vedi papà che mi ricordo la tua storia,

vedi che mi sembra vera

 

come una tavola d'oro anticamente incisa

da cui ci raggiunge

una splendente profezia dimenticata,

vera come una sentenza giusta

che tutti decidono entusiasti di non applicare.

 

Devi essere qualcuno nella vita, ragazzo mio.

Devi aver servito qualcuno,

devi aver fatto fuori qualcuno,

oppure sarai solo qualcuno

sulla strada da Carlsbad a Whites' City

coi piedi sporchi e una borsa di tela

come la vagabonda dagli occhi infossati

che scendeva la via del serbatoio

e non ci credeva che le davo un passaggio.

Se n'era andata di casa da dieci anni.

Mendicava, trovava. Non mi raccontò la sua storia.

Non le avrebbe fatto nessun bene, così disse.

Voleva sapere cosa prova

una donna che si chiude in una grotta.

Aveva sentito

che le grotte di Carlsbad

erano bellissime.

 

Al distributore mio padre serviva da bere.

Mi chiese se quella era la mia ragazza.

No, gli dissi, è una zingara.

Non ci sono zingari in America, disse lui.

In America ci sono palle da biliardo

smangiucchiate come tasti di pianoforte,

ci sono piatti speciali

in ristoranti senza niente di speciale,

ci sono pelli di serpente

essiccate con gran cura ed esposte alle verande dei motel.

Gli zingari scelgono la strada. In America non si sceglie.

Si sceglie forse in paradiso?

E se il paradiso per qualcuno fosse orribile,

ci sarebbe mai di meglio?

L'aria crepitava secca, avevo ancora sete,

c'erano tre ore prima di El Paso.

 

Devi esser qualcuno nella vita, figlio mio.

Devi esser così bravo

da lasciarci disgustati.

 

Ebbi paura quando misero la bomba alla stazione di Bologna.

Qualcuno poteva distruggere le stazioni, dopotutto.

Vedi, papà, nemmeno la tua storia era più vera.

Quante vicende da allora, quante persone.

A volte ho nostalgia di quando

appena vestiti e mandati nel mondo

ci alzavamo a separare il bene e il male.

Molti poi hanno gnaulato come cani,

molti sono spariti come code di topi in un muro,

molti hanno negato al canto del gallo,

molti hanno strozzato il gallo.

Io ho riscritto un Ecclesiaste personale.

Trovo un tempo per fuggire e uno per per tornare,

un tempo per scegliere e uno per alzare le spalle,

e mi guardo passare dall'uno all'altro

in una obliosa, vellutata privatezza.

Il centro della vita è una cosa polverosa

e provvisoria, una stazione di pianura

costruita in fretta e che nessuno abolirà,

un bambino nato troppo presto,

una casa abusiva

in un quartiere mal battuto dalle guardie.

Quanta luce dalla mia finestra, quante scie nel cielo.

Mi sfilo, mi addormento, invecchio.

Mi scrivono amici che in Italia

l'unica cosa che conta

sono i soldi.

Si vede che ce n'è.

 

Infine tocca a me,

la tua storia è ancora vera.

Ti faccio nascere, papà,

è il mio racconto che è truccato.

Ti apro in due come un romanzo

di cui so già la fine, e sono io.

Ti faccio attraversare

le massicciate d'amore, colpa e pena.

 

Vi sfrecciano treni senza stazioni,

angeli di uno stracolmo paradiso,

olandesi volanti ubriachi di ferro e di scintille.

Un giorno arriverò sull'ultimo vagone,

sul rosso Caboose dei ferrovieri

alla stazione intatta

fatta d'aria e d'orari.

Qualcuno mi dirà che sono cambiato,

qualcuno mi dirà che niente cambia,

tutto rimarrà come non l'avevo mai lasciato.

Ma siamo nati insieme. Quando sei morto

ho respirato con i tuoi polmoni.

Un giorno risorgerai,

un giorno mi sentirò mancare il fiato.

The Red Caboose

There's a cheap print in my living room

my guests don't like.

A Union Pacific red wagon--caboose

they call it here in America,

last of ten freight cars

in a line curving with the tracks

down the tumbleweed prairie.

Beyond the painting

the train is going, it keeps going

getting lost in the sponge of the wall

towards the setting sun that shines drunk, posthumous,

West of the painter.

Paul F. Detlefsen, reads the plate,

The Red Caboose.

The railroad men, here, ate their plates of beans,

smoked, drank whiskey.

The locomotive is tiny in the distance,

I can't make out the model

though it must have a heroic, familiar name

like Keaton's General. Anyway,

the smoke rises straight

and mixes with the dusty purple clouds

coming from the hills.

I can hear the men shouting,

I can see them jumping along cars,

stretching their suspenders, flicking flies away

and joking in their peaked black caps.

 

"Nobody can destroy stations."

Something I wrote once not knowing why.

The sentence hypnotized me like something

that was dead and sure. It seemed true

like a conference of meteorologists

only half of whom brought umbrellas,

like the sign at the entrance

of some war-torn city, Dresden, Coventry,

after the airplanes had dropped their loads.

 

One evening I took a train from Siracusa,

I was a folksinger then.

Another festival over,

rock bands and a Kathakhali theatre company.

The Indians had eaten all the rice,

the rock musicians had taken away all the money.

I got my expenses and Greek theatre.

In Dyonisius' Ear a disc jockey deafened me

with his personal top-ten

and with music business—such a drag.

Toward Catania, corridor after corridor,

I pictured myself in a HO train-table landscape,

powerful engines on cone-shaped mountains,

freight cars rolling down to the shunting yard.

When I used to press my nose against shop windows

the most gorgeous, most expensive trains were the Märklins.

The Rivarossis were falling off the shelves,

but few had the Fleischmanns,

and I was proud of owning one.

I had no switches. I thought it was for rich boys.

To spend money on a switch was a moral issue,

Hercules at the crossroad, virtue 's downhill path,

comfort's gentle rise.

 

I stepped into the postal wagon,

my father counting sacks of letters,

packages pressing against the ropes as breasts.

I couldn't go any further,

my couchette two cars ahead,

but I couldn't make a move, convinced that

the train was going faster than I was.

Dad, I can't sleep, tell me again

of the American airplane over your village

machine-gunning all around the station,

and never hitting it.

The station is still there, I saw it

unchanged since the war.

It is now that the station seems bombed, useless,

but not destroyed.

You see, dad, I remember your story,

you see, it seems true to me

 

like an ancient, carved gilded table,

from which some shining

forgotten prophecy reaches us,

like a just verdict which

everyone cheerly decides to ignore.

 

You must become somebody, my son.

You must serve somebody,

you must take out somebody.

If not, you will only be someone

on the road from Carlsbad to Whites' City,

dirty feet and a canvas bag,

like the drifter with the deep-set eyes,

coming down the road by the watertank.

She couldn't believe that I wanted to give her a ride.

She had left home ten years before.

She begged, she scraped, she didn't tell me her story.

It wouldn't do her any good, she said.

She wanted to know what it is like for a woman

to seclude herself in a cave.

She had heard the caves

of Carlsbad

were beautiful.

 

At the filling station my father was serving drinks.

He asked me if she was my girlfriend.

I said no, she's a gypsy.

There are no gypsies in America, he said.

In America there are billiard balls

as worn as piano keys,

there are specials

in restaurants that are not special at all,

there are snakeskins

carefully desiccated and displayed on motel patios.

Gypsies choose the road. You don't choose in America.

How could you choose in Paradise?

And if Paradise were horrible for someone,

who could find something better?

The air was dry and crackling, I was still thirsty

and it took three hours to get to El Paso.

 

You must become somebody, my son.

You must be so good

That it makes us feel bad.

 

After they bombed the Bologna station I was scared.

Someone could destroy stations after all.

You see, dad, your story is true no more.

So many things happened since then, so many people.

Sometimes I have nostalgia for the time when we,

just dressed and arrived into the world,

stood up to tell right from wrong.

Many, later, howled like dogs,

many disappeared like mouse tails in the wall,

many denied at cock-crow,

many strangled the cock.

I rewrote a personal Ecclesiastes.

I find a time to flee, a time to come back,

a time to take a stand , a time to shrug.

And I look at myself, passing from one time to another

in an oblivious, velvet privateness.

The center of life is something dusty

and temporary, a station in the plain

that was built in a hurry but will never be destroyed,

a child born too soon,

a house built on restricted lots

in a neighborhood police rarely patrol.

So much light at my window, so many vapor trails in the sky.

I unravel myself, I fall asleep, I grow old.

Friends are writing me.

They say in Italy now

only money counts.

There must be plenty of it.

 

And now it's my turn,

your story still rings true.

I give you birth, dad,

it's my story that's made up.

I open you in the middle like a novel

whose ending I already know, and it is me.

I help you crossing

the ballast of love, guilt, pain.

 

Where trains without stations are whizzing,

angels of an overcrowded paradise,

flying Dutchmen, drunk with iron and sparks.

Some day I will get down from the last car,

the Red Caboose of the railroad men,

at the untainted station,

made of wind and schedules.

Someone will say that I have changed,

someone will say nothing changes,

everything will be as I never left it.

But we were born together. When you died

I breathed with your lungs.

Some day you will rise,

some day I will be out of breath.

 

(From La sposa perfetta, Bologna: Book Editore, 1997) 

(All translations into English by D.F. Brown, Peter Carravetta, & the author)

Previous
Previous

Sento i suoni ma non capisco le parole

Next
Next

Khalid arriva a Bologna